Il presente contributo attiene la relazione intercorrente tra segreto professionale e obbligo di referto con specifico riguardo allo psicologo che eserciti la professione quale libero professionista iscritto all’albo.
L’art. 622 cod. pen. stabilisce che “chiunque, avendo notizie, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare un nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da € 30 a € 516. (…). Il delitto è punibile a querela della persona offesa”.
L’art. 4 della Legge 18 febbraio 1989 n. 56, recante l’ordinamento della professione di psicologo, ha sancito la forza cogente dell’art. 622 cod. pen., stabilendo che “gli iscritti all’albo sono soggetti alla disciplina stabilita dall’art. 622 del codice penale”, rendendo, così, l’obbligo di segretezza, caratterizzante la professione stessa di psicologo.
In definitiva, il professionista che riveli informazioni apprese nello svolgimento dell’attività professionale commette violazione del segreto professionale al quale lo psicologo è assoggettato per il combinato disposto degli artt. 622 c.p. e 4 L. 56/89, essendo, al contrario, la rivelazione di fatti appresi nell’esercizio della professione, assistita da giusta causa solo allorquando essa possa trovare giustificazione – diretta o indiretta – in una norma giuridica avente carattere imperativo che obblighi il professionista depositario del segreto a rivelarlo.
L’obbligo di riservatezza in capo allo psicologo professionista in quanto esercente una professione sanitaria viene, però, meno nei casi stabiliti dall’art. 365 cod. pen., che così stabilisce: “chiunque, avendo, nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità indicata nell’art. 361, è punito con la multa fino ad € 516. Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale”.
Il codice penale distingue tra delitti perseguibili d’ufficio e delitti perseguibili a querela della parte offesa: i primi sono quelli in relazione ai quali la valutazione circa la pericolosità o l’offesa a valori ritenuti socialmente rilevanti determina che l’iniziativa della loro repressione possa prescindere dalla volontà della parte offesa; sono, invece, perseguibili a querela della persona offesa i reati per i quali si ritiene preminente l’offesa ad un interesse privato, il che giustifica la scelta di richiedere, per poter essere perseguiti, una esplicita iniziativa della parte lesa.
In generale, la scriminante fra gli uni e gli altri è data dall’entità della pena, ma è necessario, di volta in volta, verificare la punibilità a querela o d’ufficio dello specifico reato, posto che solo per quelli per i quali si debba procedere d’ufficio sussiste l’obbligo del referto a carico del professionista psicologo, ad esclusione dell’ipotesi in cui il referto esporrebbe il proprio assistito ad un procedimento penale.
In merito all’obbligo di referto incombente sullo psicologo nell’esercizio dell’attività libero professionale è rilevante il precedente della Suprema Corte di Cassazione Penale dato dalla sentenza n. 44620 del 3 ottobre 2019, che ha stabilito il seguente principio di diritto: “(…) a prescindere dagli obblighi che ineriscono alla figura dello psicologo e psicoterapeuta inquadrati in una struttura pubblica quali enunciati dagli artt. 361 e 362 c.p., anche nell’ambito di un rapporto di natura libero-professionale, gli esercenti della professione di psicologo e psicoterapeuta che avendo prestato assistenza od opera in casi che possono presentare caratteri di un delitto per il quale si debba procedere di ufficio hanno l’obbligo di riferire all’Autorità Giudiziaria, a meno che la segnalazione non esponga “la persona assistita a procedimento penale”.
Nella sentenza citata, la Cassazione precisa ulteriormente che la formalizzazione nel referto di elementi conoscitivi in ordine alla possibile sussistenza di un delitto punibile d’ufficio costituisce un preciso obbligo dello psicologo e/o dello psicoterapeuta “in quanto atto volto a promuovere l’intervento dell’autorità giudiziaria ed il cui contenuto, anche se non equiparabile a quello del rapporto, è descritto anche nella disciplina deontologica di settore (art. 13 del Codice deontologico), secondo il quale, nel caso di obbligo di referto (come per i casi di obbligo di denuncia), lo psicologo limita allo stretto necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del soggetto”.
Laddove ricorra l’obbligo di referto, l’art. 334 cod. proc. pen. prevede che il referto debba essere fatto pervenire “entro quarantotto ore o, se vi è pericolo nel ritardo, immediatamente al pubblico ministero o a qualsiasi ufficiale di polizia giudiziaria del luogo in cui ha prestato la propria opera o assistenza ovvero, in loro mancanza, all’ufficiale di polizia giudiziaria più vicino. Il referto indica la persona alla quale è stata prestata assistenza e, se è possibile, le sue generalità, il luogo dove si trova attualmente e quanto oltre valga a identificarla nonché il luogo, il tempo e le altre circostanze dell’intervento; dà, inoltre le notizie che servono a stabilire le circostanze del fatto, i mezzi con i quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o può causare. Se più persone hanno prestato la loro assistenza nella medesima occasione, sono tutte obbligate al referto, con facoltà di redigere e sottoscrivere un unico atto”.