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Gli psicologi, la crisi e il lavoro a gratis: chi vorrei essere con l’altro?

Da qualche giorno, nel mio feed social, fra meme sulla quarantena, riflessioni sulla quarantena, notizie sulla quarantena, si incastonano post sponsorizzati di colleghi che promuovono proposte di consulenza ad hoc per questo periodo, di quarantena, che in sostanza si basano sulla possibilità di uno o più colloqui gratuiti1.

Salvo poche eccezioni, la struttura dei post è indicativamente questa:

  • è un periodo difficile
  • per aiutarti in questo periodo difficile, ti ricordo che lavoro su Skype
  • per aiutarti in questo periodo difficile, offro uno/due/tre/quattro colloqui gratuiti2 e, in alcuni casi, poi il costo del percorso è ridotto3.

Tralasciando le riflessioni sulla mia targettizzazione social e sul bilanciamento sempre più sbilanciato verso il secondo nodo fra post relazionali e post sponsorizzati4, credo sia utile provare a capire cosa stia succedendo nella nostra categoria professionale durante questa crisi.

Partiamo da una considerazione: quello che stiamo vivendo è un un cambiamento di epoca, perché non stanno solo emergendo nuove abitudini igieniche e prossemiche – cosa che già di per sé implicherebbe cambiamenti non da ridere, perché chi continua a fare colloqui in studio sa bene quanto sia significativo distanziare le poltrone oppure non distanziarle; smettere di dare la mano ad alcuni pazienti oppure continuare a darla, solo per citare due aspetti – ma si stanno minando alcuni miti fondativi di noi persone nate e cresciute nell’occidente post-bellico (per esempio, ma sono certo che altri ce ne possono essere: l’idea di essere umano autonomo che sceglie per sé e può andare dove preferisce; il primato dei desideri individuali; il peso marginale della collettività; la predilezione per un tessuto lavorativo parcellizzato, fatto di singoli più che di gruppi; l’idea per cui l’accumulo di dati ci permetterà di evitare gli imprevisti; il pensiero positivo per cui tutto è sotto il nostro controllo individuale).

Un cambiamento di questo tipo, che riguarda gli aspetti più concreti delle nostre vite così come i significati più impliciti e profondi, non può non generare incertezza verso il futuro, o meglio, non può non portare con sé la sensazione di non saper più anticipare il futuro, quindi, per dirla alla George Kelly5: viviamo una transizione di ansia perché sentiamo di essere sui limiti del nostro sistema, che quindi fatica a trovare appigli per continuare ad anticipare il domani.

Questo significa che non lo sappiamo se “andrà tutto bene”, non sappiamo se potremo tornare alla vita di prima, ovvero non sappiamo se i costrutti che ci hanno permesso fino a oggi di stare in piedi, nel tempo futuro saranno ancora utili.

Che socialità ci sarà? Che economia ci sarà? Che modi di stare assieme?

Che ruolo avremo noi psicologi? Come e cosa sarà la clinica? E la formazione? E gli interventi nelle scuole? E…?

È inutile girarci attorno, questo fa, nel migliore dei casi, paura perché per noi potrebbe significare dover ricostruire uno dei nostri ruoli esistenziali – nucleari, direbbe Kelly6 – ma ancora non sappiamo in che direzione, né quali saranno le implicazioni che possiamo aspettarci da questo cambiamento così massiccio.

Messa in questi termini, diventa molto comprensibile la reazione sociale dei balconi: il tentativo di aggrapparsi a una rassicurazione collettiva che costringe lo sguardo rispetto a un timore troppo grande da guardare (un po’ quello che per anni abbiamo fatto con la paura della morte, direbbe il buon vecchio Yalom, a proposito di miti fondativi che vanno a ramengo).

Allo stesso modo, messa in questi termini, diventa molto comprensibile anche l’esperimento personale che stanno facendo i colleghi di cui facevo accenno all’inizio, perché, di fronte alla paura che un proprio ruolo nucleare cambi in modo grande, è preferibile trovare una rassicurazione che dia la convinzione che non è così. Quindi, la scommessa è: se qualcuno mi contatta, allora vuol dire che il mio ruolo di psicologo, per come l’ho costruito fino a ora, è salvo; sono per questo disposto a lavorare gratuitamente, pur di salvare il salvabile. Accanto a questo, la possibilità di raccontare la proposta come “aiuto per l’altro” – nonostante da ogni parte ci sia stato detto che nelle emergenze è bene che si muova chi di emergenze se ne intende e che, in caso, sarà da lì che potrà partire la richiesta di una messa a disposizione capillare per un servizio effettivamente gratuito – ci permette di sentirla in continuità con i presupposti, appunto, di aiuto che il nostro lavoro porta con sé.

Come dicevo, è comprensibile, perché sono comprensibili la paura e il desiderio di rassicurarsi, ma, visto il nostro ruolo professionale, sono convinto che non possiamo non fare un salto di lato e chiederci: bene, questi sono i presupposti da cui partiamo nel fare proposte del genere, ma quali sono le implicazioni relazionali e sociali?

Provo ad anticiparne alcune, con la certezza che me ne sto perdendo altre per strada:

  • la terapia7 online è inferiore a quella presenziale: questo è un presupposto generale che molti condividono, infatti alcuni colleghi hanno preferito interrompere le attività. Personalmente, credo invece che fare terapia da remoto abbia una portata così diversa, che ci siano persone per cui è addirittura preferibile, altre per cui è impossibile, ma qui entriamo nel campo delle valutazioni personali. Il problema di questo implicito è che, quando si innesta nelle sponsorizzazioni di prima, crea una comunicazione paradossale perché nel testo c’è scritto che si fa terapia via Skype, ma al contempo la si fa pagare meno oppure niente. I dubbi, per un ipotetico paziente, sarebbero legittimi: è una terapia diminuita? Ha meno efficacia? Perché dovrei iniziare a pagare dopo il primo colloquio per una terapia inferiore?
  • La categoria è in crisi: quando vedo questi post, la seconda cosa che faccio, dopo aver letto il testo, è aprire i commenti, per vedere come le persone reagiscono. Sotto una delle prime sponsorizzate che mi sono capitate sotto gli occhi, il secondo commento era “sciacall*”8. A me si è gelato il sangue. Mi sono messo nei panni del/la collega e mi sono immaginato come deve essersi sentito/a, perché in quel commento9 c’era l’accusa di andare a sfruttare una situazione di crisi per un tornaconto personale. Il problema è che, per un ipotetico esterno – persona anche lei che sta vivendo la crisi che dicevamo e che quindi usa i social anche per sfogarla quella paura -, la sensazione è facile che sia “mi vuoi incontrare una volta, così poi mi fai pagare”, quindi quella che viene in qualche modo lesa non è solo l’immagine del singolo professionista, ma di tutta la categoria. E ora, io lo so che noi non siamo abituati a ragionare in termini di collettivo, ma in questa situazione potrebbe essere buona cosa quantomeno porsi il problema;
  • Sei così buono/a: accanto ai commenti di prima, ci sono quelli che idolatrano la bontà della persona che offre la propria – parziale – prestazione gratuita. Sono ripetitivo. Noi tutti, singoli che compongono la società, stiamo vivendo una crisi grande. C’è chi reagisce con la rabbia – l’esempio di prima – e c’è chi si affida. Ma chiediamoci: con che presupposti inizia una terapia che parte con la visione che il terapeuta sia un santo? Sia chiaro, noi mica possiamo controllare i presupposti dei nostri pazienti, ma quando ci impegniamo a veicolarli, dei dubbi è bene che ce li poniamo;
  • E se uno non può pagare mai: questa potrebbe essere una postilla ai due punti precedenti. Santo e sciacallo sono fratelli, potrebbero essere poli opposti dello stesso costrutto10. Ovvero, possiamo ipotizzare che molti possano distinguere le persone fra santi e sciacalli (due modi diversi per dire buono Vs cattivo), per cui, quando uno smette di essere vissuto come santo, è molto facile diventi sciacallo perché queste costruzioni, che si basano su “tu sei così”, difficilmente ammettono la comprensione dei processi dell’altro. Poniamo allora che una persona in seria difficoltà faccia i suoi due colloqui gratuiti e poi dica “io non posso pagare”. Nella misura in cui ha visto, fino a quel momento, il collega come santo, potrà comprensibilmente aspettarsi che il santo accolga anche la sua difficoltà economica e continui la sua opera pro bono. E qui è un bel casino. Se lo fa, torniamo al punto di prima: che terapia è quella in cui il terapeuta è santo? Quanto c’è di suo nel volersi sentire considerato così? Se non lo fa, è molto facile che la reazione del paziente sia di sentirsi di aver sbagliato e si sposti di polarità, quindi il santo diventa ai suoi occhi uno sciacallo. E, nuovamente, questo riguarderà il singolo professionista, ma sarà facilmente estendibile a tutta la categoria (gli psicologi sono…). Accanto a ciò, il paziente stesso potrebbe ricavarne anche un giudizio su di sé. Trovandosi in relazione con un’offerta di aiuto salvifico, potrebbe costruirsi, o ricavare la conferma di sentirsi, bisognoso, ma non normalmente bisognoso, bisognoso di un intervento speciale. E quindi ancora: che implicazioni si creano? Di fronte alla delusione, invece, potrebbe sentirsi una persona che non sa capire le altre persone, che non è in grado di comprenderle, ecco perché aveva bisogno di un santo, ma di santi al mondo, evidentemente, non ce n’è, quindi, che può fare? Mi ripeto perché ci tengo: noi non possiamo controllare come gli altri interpretano quello che facciamo, ci mancherebbe, ma nemmeno possiamo evitare di chiederci quali siano le probabili implicazioni relazionali delle nostre scelte cliniche, e il modo di promuoverci è già di per sé una scelta clinica;
  • I soldi fanno parte della terapia: sono convinto che noi possiamo decidere di adeguare il nostro tariffario in base alle esigenze nostre e dei singoli pazienti, che l’aspetto economico possa essere un terreno di sperimentazione relazionale all’interno del processo clinico. Far pagare o meno una seduta saltata; abbassare o alzare la parcella, sono tutti esperimenti che possiamo fare, ma che devono nascere da considerazioni puntuali e relazionali, perché quella è l’attenzione che ci viene richiesta11. Il caldaista deve saper leggere e sistemare una caldaia. Il falegname deve saper lavorare il legno, comprenderne i nodi. Lo scrittore deve ponderare ogni parola di un suo testo. Noi dobbiamo prestare attenzione alle relazioni: provando, sperimentando, sbagliando, ma mai tralasciando questa dimensione;
  • Se le persone stanno male, stanno male: dico una banalità, noi abbiamo sempre a che fare con persone che stanno male, alcuni molto, alcuni meno. Perché una persona che era in crisi ai primi di febbraio, se non poteva permettersi una terapia, veniva rimbalzata, mentre oggi viene accolta (salvo magari poi essere rimandata ai servizi veramente gratuiti, quando emerge che una terapia non se la può comunque permettere)? Il principio è che, se noi lavoriamo gratuitamente con chi sta male, dovremmo farlo sempre perché le persone vengono sempre dallo psicologo con una crisi in corso e la nostra discriminante non può essere l’ampiezza sociale di questa crisi, in quanto, e torniamo al principio, con queste proposte non si sta costruendo un servizio, ma ci si sta proponendo come singoli professionisti che, da quella attività clinica, hanno poi necessità legittima di ricavarne la propria sussistenza.
  • Va tutto bene: il desiderio di negare una crisi è umano, perché crisi significa cambiare, quindi mettere mano al proprio modo di vivere. Non è atipico che le persone arrivino in studio con il desiderio di sentirsi dire che va tutto bene, e la rassicurazione può essere uno degli strumenti che ha lo psicologo, ma non può essere il fine del suo intervento. Il fine di un percorso, infatti, credo sia quello di comprendere i vincoli che viviamo e, all’interno di quei vincoli, capire chi possiamo essere, come possiamo cambiare. In altri termini, a noi tocca accettare di essere persone anche scomode. Se lo psicologo, per quello che dicevo prima, invece, porta avanti l’implicito fine personale di dimostrarsi che non sta succedendo nulla di così grave, rischia di andare in accoppiamento strutturale con i desideri del proprio paziente, creando un loop di rassicurazioni reciproche, che può andare bene fra due amici, ma è poco utile per un lavoro clinico finalizzato a costruire ruoli alternativi che aiutino ad affrontare presente e futuro minacciosi.
  • Come dicevo, queste sono le implicazioni che mi sono venute in mente, ma immagino che molte altre ce ne possano essere12 e, per quanto io non ne condivida la scelta, non è mia intenzione stigmatizzare chi fa le proposte di cui ho parlato, ma spero che queste riflessioni siano utili.

Spero che siano utili, non per smettere di promuoversi, ma come punto di partenza per immaginare il nostro ruolo professionale in modo diverso, consapevoli che cambiare non significa perdere tutto ciò che siamo, ma nemmeno tornare al tempo passato.

Per esempio, mi piacerebbe che questa crisi ci permettesse di costruire il nostro ruolo più come parte di una comunità e meno in modo individualista (ah, il buon vecchio sogno del clinico che esiste solo nel proprio studio e per il quale il mondo di fuori non esiste). Per esempio, mi piace pensare che in futuro saremo più capaci di immaginarci come una figura che sa stare nella paura, affrontare – anche con le ginocchia che tremano – i cambiamenti personali e sociali senza perdere la dimensione relazionale del nostro lavoro, che quindi si tramuta in uno sguardo a lunga prospettiva: in questo futuro-che-chissà, chi vorrei essere con l’altro?

*Alessandro Busi: psicologo specializzato in psicoterapia a indirizzo costruttivista. Accanto all’attività clinica mi occupo di scrittura, narrazioni e del rapporto fra uomo e nuove tecnologie.

1 So bene che anche l’Ordine nazionale chiede, nel form per iscriversi alla piattaforma degli psicologi online, se si offre un primo colloquio gratuito. Questo non ci esime dalla riflessione individuale e professionale della scelta di barrare sì, oppure no.

2 Qui credo sia importante distinguere fra chi offre sempre il primo colloquio gratuito e chi lo fa ad hoc. A prescindere dalla scelta personale e professionale mia, infatti, nel primo caso, trovo che ci sia una riflessione sulla relazione clinica, mentre nel secondo questa riflessione la sento meno.

3 Specifichiamo subito: questo tipo di proposte è legittima. In questo articolo vorrei esplorarne il senso e le implicazioni relazionali e di significato, ma non significa che non si possano fare.

4 Questo aprirebbe delle belle riflessioni su come sia cambiato il nostro rapporto con la pubblicità e il nostro rapporto con la merce, nel momento in cui noi stessi chiediamo di essere merce.

5 Siccome la mia teoria di riferimento è la Psicologia dei Costrutti Personali, mi rifarò nell’articolo a questa teoria. Per chi volesse approfondire, ma non ha intenzione di leggersi le mille e rotti pagine di Kelly in inglese, questo è un ottimo titolo: Don Bannister, D., Fransella, F. (1986). L’uomo ricercatore. Introduzione alla psicologia dei costrutti personali. (ed. it. a cura di G. Chiari e M. L. Nuzzo). Psycho di G. Martinelli, Firenze.

6 In questo caso, si potrebbe dire che, in termini PCP, la transizione che stiamo vivendo è una transizione di minaccia, non di ansia, ma non credo sia questa la sede per approfondire questi aspetti più teorici.

7 Parlo di terapia, ma lo stesso discorso può valere per la clinica in generale.

8 Mi ricordo bene il genere della persona a cui era rivolto, ma non conta, conta il principio

9 Peraltro, io rifletterei sull’uso delle metafore animali perché lo sciacallo mica fa niente di male, ma vabbè.

10 Qui serve una breve nota teorica. Nella PCP i costrutti sono l’unità minima di conoscenza, il nodo più piccolo del nostro sistema personale attraverso il quale discriminiamo gli eventi – da qui le due polarità – per poter anticipare il futuro. Ogni costrutto è personale (nomen omen della teoria), ma esiste anche una forma di comunanza sociale nelle costruzioni. La mia ipotesi, nell’esempio “santo Vs sciacallo”, è quindi che queste due etichette portino con sé il costrutto socialmente molto comune buono Vs cattivo. Se distinguo le persone in buone Vs cattive, può essere che prediliga accompagnarmi con le prime e, quando una di queste deluderà le mie aspettative rispetto a “come deve essere una persona buona”, allora riterrò di essermi sbagliato: lei è una persona cattiva e io potrei diventare una persona incapace di capire gli altri.

11 Personalmente non escludo che, in questo futuro sospeso a cui ci affacciamo, ci possa essere anche l’eventualità di dover ripensare alle tariffe. Ma la logica sarà quella di stare dentro i nuovi vincoli che l’economia ci porrà, non di precederla.

12 Ora mi viene in mente, nel continuare a ribadire “guarda che stai male, che per questa situazione stai soffrendo”, cosa veicoliamo?