Rassegna Stampa

Rischiamo di “abituarci alla guerra”?

di Giovanni Sgobba

In soccorso arriva, puntualmente un neologismo inglese per dare forma e nome ai nostri sentimenti e sensazioni. La guerra in Ucraina piomba dopo due anni e oltre di pandemia che già ci aveva reso fragili

e vulnerabili. Dal 24 febbraio, ora più ora meno, alcuni di noi hanno iniziato a leggere con compulsione notizie che arrivavano da Kiev e non solo. Giorno e notte, prima di svegliarsi e prima di andare a dormire. È

il doomscrolling, termine che unisce il concetto di sventura (doom) e l’atto dello scorrimento verticale sul display (scroll) e indica il bisogno di “ingurgitare” informazioni anche se ci rattristano, ci scoraggiano e ci

deprimono. «È successo con i primi mesi di pandemia, sta succedendo ora – è il giudizio di Luca Pezzullo, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Veneto – Uno scorrere continuativo e ansioso nel tentativo di capire

o essere rassicurati. Questo è un problema perché noi ci costruiamo una rappresentazione degli eventi sui nostri vissuti e i social hanno cambiato l’infosfera e lo scenario dell’informazione, e non sono necessariamente utili, anzi a volte aumentano lo stato di confusione, di incertezza e di esposizione a una serie di informazioni di cattiva qualità. Sono strategie pervasive, convincenti o attivanti dal punto di vista emotivo: ci attivano le parti subcorticali del cervello, quelle più legate al sistema arcaico o viscerale, rispetto a quelle corticali deputate all’analisi razionale delle informazioni».

Dopo oltre un mese di conflitto e di informazioni, un utente rischia l’assuefazione o, peggio ancora, di “normalizzare” la guerra, di lasciarla in sottofondo? Come si fa a non normalizzare i bombardamenti?

«Non c’è una strategia specifica perché questo è un ciclo di usufruizione dell’informazione che è tipico in ogni grande emergenza.

Nella primissima fase c’è l’evento che è iperattivante e ci porta a una maniacale consultazione e spasmodica attenzione al tema. Però il nostro sistema neuro-cognitivo non può reggere a lungo questa pressione: dopo alcuni giorni c’è una fase di reflusso, si riducono le risorse, è un “tirarsi indietro” per risparmiare le energie cognitive, e può diventare anche un rifiuto all’informazione stessa. Il problema è che quando si aprono gli spazi della complessità fattuale, cioè il programmare, organizzare, il comprendere – il momento in cui deve

entrare in gioco la parte corticale – le persone sono già stanche e tendono a ridurre la loro attenzione, si ancorano a poche risposte semplici e rassicuranti per evitare un’elaborazione complessa».

Rispetto all’attenzione iniziale, sento che mi sto legando meno all’emotività, tendo a distaccarmi dal leggere ogni giorno di quello che succede in Ucraina. Sono una cattiva persona?

«È la cosa più fisiologica che ci sia. Io ho lavorato nell’ambito delle emergenze assieme alla Protezione civile e una delle cose che ho visto è che ci dobbiamo ricordare noi per primi che siamo esseri umani ed

è legittimo assumere questo comportamento. Certo razionalmente possiamo pensare di andare sul fronte, capire nei dettagli quello che succede, non vogliamo farci scavalcare, ma legittimiamoci nella nostra

normalità, non dobbiamo essere superuomini davanti all’emergenza. Agiamo, ma con paure e limiti e ansie ed è rinfrancante poterselo dire».

Luca Pezzullo – Presidente Ordine degli Psicologi del Veneto
Ai bambini si deve raccontare, anche aspetti positivi

Quali anticorpi deve adottare un genitore o un insegnante per raccontare e se raccontare la guerra ai

più piccoli?

«Va calibrato in base all’età, ma il principio generale è che non bisogna fare l’errore di non parlare di quello

che è successo o interrompere il discorso, cambiare canale in tv per paura che possano impressionarsi –

sottolinea Luca Pezzullo – . I bambini si rendono subito conto che qualcosa non va e la cosa che fa più paura è che addirittura i genitori hanno paura. Loro così come gli insegnanti devono essere luogo sicuro dove fare

domande, evitando gli aspetti più angoscianti.

Ci si può focalizzare non solo sul brutto, ma anche sul bene: le storie di aiuto, di accoglienza e di cura dell’altro sono elementi di speranza».

Testata: La Difesa del Popolo