News

Spiegare il Coronavirus alle persone con demenza: si può fare?

Molti caregiver si chiedono se e quanto raccontare dell’attuale emergenza sanitaria ai loro cari affetti da demenza.

Dopotutto anche la loro quotidianità è stata stravolta: sono chiusi i centri sollievo, i centri diurni e i servizi territoriali che per le famiglie rappresentavano un porto sicuro a cui affidare i propri cari e per i malati spazi di socializzazione, svago e impegno fondamentali.

Ora siamo tutti a casa. E loro con noi.

Per una persona affetta da demenza stare a casa non è così semplice. Chi ha un familiare con questa malattia sa bene che il movimento è fondamentale. Ci sono momenti buoni e altri meno e spesso, da questi ultimi, più delle parole salva una passeggiata, un giro in auto, piccole strategie che aiutano a contenere i disturbi del comportamento e che ora non si possono più utilizzare.

La quotidianità è saltata per tutti, anche per loro.

Ma il mantenimento delle routine e delle abitudini è fondamentale per la serenità del malato di demenza. Cambiare ritmi di vita ci mette tutti in difficoltà, lo stiamo sperimentando sulla nostra pelle. Nonostante abbiamo risorse cognitive sufficienti per capire cosa accede, accettarlo e affrontarlo. C’è bisogno di seguire le regole per il bene di tutti e lo facciamo.

Per un malato di demenza la questione è diversa. Comprendere non è altrettanto semplice perché vengono a mancare progressivamente i pre-requisiti cognitivi necessari.

E così iniziano le battaglie. Da una parte il malato, spesso confuso e agitato, che cerca di raggiungere la porta perchè deve andare a lavorare, o uscire a fare la spesa, o andare a fare sue cose! Dall’altra il caregiver che prova a convincerlo, con molta pazienza, ma che alla fine, esasperato, la perde.

Che cosa fare allora per affrontare la situazione? Quando e quanto tentare di aiutarli a comprendere?

La risposta è: dipende!

Dipende da numerosi fattori, perché la nostra capacità di comprendere dipende dall’integrità delle nostre funzioni cognitive. Più sono compromesse più faticheremo a capire ciò che ci circonda. Ma possiamo ugualmente fare un tentativo di spiegare loro la situazione.

Il primo passo da fare è verificare se il nostro familiare è in grado di recepire l’informazione che vogliamo dare.

Iniziamo con qualche informazione fondamentale, poche parole molto chiare, e osserviamo la reazione. Riesce a comprendere il concetto di “malattia”? E il concetto di “epidemia”? Segue il discorso o lo vedete sempre più confuso? Una piccola strategia per aiutarlo a capire è fare un parallelismo con qualcosa a lui familiare: ad esempio l’epidemia conosciuta come “Spagnola”, che colpì l’Europa all’inizio del ‘900. Sebbene anche i più anziani all’epoca non fossero ancora nati, ogni famiglia, purtroppo, ha avuto almeno un familiare o un conoscente morto per la Spagnola. Fu una disgrazia ad impatto sociale così forte da rimanere scolpita e tramandata nella memoria storica delle famiglie.

Un altro elemento importante è il nostro stato d’animo.

Sappiamo infatti che a differenza del sistema cognitivo, nei malati di demenza il sistema emotivo continua a lavorare fino alla fine. Questo significa che i nostri malati “sentono” le nostre emozioni, capiscono quando siamo angosciati e preoccupati e assorbono la nostra ansia o la nostra tranquillità. Il cervello, anche se malato, reagisce osservando l’altro, come una danza dove ci influenziamo a vicenda.

E in tutto questo le parole spesso fanno da semplice corollario al messaggio principale: le nostre emozioni.

Per capire meglio possiamo prendere in prestito il modello 55-38-7 elaborato dallo psicologo Mehrabian negli anni 60 per spiegare la comunicazione. Secondo i suoi studi quando comunichiamo il 55% del contenuto del nostro messaggio è veicolato dal non verbale (mimica e gestualità), il 38% dal paraverbale (tono della voce, ritmo) e solo il 7% è determinato dal verbale. Quindi il nostro atteggiamento, il tono della nostra voce e l’espressione sul nostro viso comunicano molto più delle parole. E per i malati di demenza la percentuale del verbale si abbassa ulteriormente.

Fatto il tentativo di spiegare al vostro caro l’emergenza in corso, potreste trovarvi di fronte a diverse reazioni.

Comprende, se ne dispiace, accetta la spiegazione e di non uscire…ma poi se ne dimentica.

Non dimentichiamo (scusate il gioco di parole) che la memoria è una delle funzioni più compromesse nei malati di demenza. E se noi siamo ormai sicuri che ricorderemo la parola coronavirus per sempre, nella loro mente la conversazione appena avuta potrebbe essere cancellata qualche ora dopo. In questo caso la paziente ripetizione è la vostra arma migliore.

Potrebbe seguire la spiegazione ma non cogliere la gravità e, quindi, continuare ad insistere per uscire. La comprensione del rischio che consegue ai nostri comportamenti è possibile grazie al funzionamento del sistema esecutivo. Un complesso insieme di circuiti cerebrali responsabile della regolazione di tutti i nostri comportamenti. È quella parte del cervello che ci fa valutare il pericolo e ci fa scegliere il comportamento più prudente. In molti malati di demenza questi circuiti saltano: la persona comprende quindi il significato di “malattia” “epidemia”, ma non riesce a valutare il rischio delle proprie azioni. In questo caso non vale la pena insistere e, come ben saprete, ancora meno arrabbiarsi. Meglio adottare strategie alternative come distogliere l’attenzione proponendo di fare qualcosa che lo interessa (leggere il giornale, andare a controllare l’orto, pulire la verdura, bere una tazza di tè), qualcosa che tenga impegnati mani e testa finché la spinta ad uscire passa.

L’importante è guadagnare tempo per superare il momento di crisi e in quest’ottica qualche bugia detta a fin di bene aiuta:

“Usciamo tra poco papà, appena torna Leo da lavoro”

“Siamo senza auto, è dal meccanico. Porta pazienza che è quasi pronta, poi si va”

“Ok dai, ti accompagno io a lavoro. Ma prima prendiamo assieme un tè con i biscotti così non usciamo a stomaco vuoto”.

Il senso non è quello di ingannarli, ma di rispondere positivamente al loro bisogno di andare, guadagnare tempo e non aumentare l’agitazione con un rifiuto. Il passare del tempo e la tendenza a dimenticare spesso fanno il resto.

Organizzare la giornata aiuta.

Le abitudini sono fondamentali per i malati di demenza: la ritualità delle giornate crea sicurezza e, in parte, compensa le difficoltà. Alcuni di questi piccoli accorgimenti potrebbero quindi esservi utili per mettere ordine alle loro giornate, sapendo che l’ordine fuori spesso aiuta l’ordine “dentro”:

  • Non tenere la tv costantemente accesa su tg e notiziari: il continuo ripetersi di termini come “morti” “emergenza” “anziani” ecc. potrebbe creare loro inquietudine e, di conseguenza, agitazione, anche se vi hanno dato segno di non comprendere la gravità della situazione;
  • Ricreare piccole routine per i pasti e per il momento di andare a letto, cercando di dare regolarità agli orari per aiutare a regolare la giornata;
  • Stimolare il movimento, per quanto possibile, sfruttando il giardino, le scale, il pianerottolo del condominio. Questo aiuterà a ridurre il rischio di perdita del tono muscolare e verrà incontro al loro bisogno, assolutamente normale, di muoversi un po’;
  • Tenerli impegnati in attività finalizzate che riescono ancora a svolgere con successo. Pulire frutta e verdura, impastare la pizza, piegare calzini e asciugamani, riavvolgere fili di lana, riordinare fotografie, ecc. Questo permetterà loro di canalizzare energia in qualcosa che li faccia sentire ancora utili ed efficaci con un effetto positivo sulla loro autostima. Abbiate sempre a mente che spesso la spinta ad uscire e “andare” è figlia della noia e dell’inattività
  • Alternare momenti di attività con situazioni più tranquille come ascoltare musica, guardare un film in tv o leggere assieme il giornale. Aiuta a dare equilibrio alla giornata.

E infine…

Fatevi raccontare la loro storia: molti malati di demenza hanno perso le coordinate del presente ma conservano quelle del passato. Magari non ricordano più i nomi dei nipoti, o il fatto di aver avuto dei figli, ma spesso ricordano il loro primo lavoro, gli anni dell’infanzia e della giovinezza. Approfittate di questo momento di lentezza e isolamento per provare ricostruire con loro quel filo spezzato di ricordi e sentimenti su cui è fiorita la vostra famiglia.

Una cosa che ho imparato nel mio lavoro a contatto con i malati è che sotto la cenere delle perdite cognitive, anche se massicce, si nascondono ancora reti di ricordi che a volte, incredibilmente, possono essere recuperati con una fotografia, un nome, un profumo, una canzone ascoltata e amata da giovane. Questo potrebbe essere un buon momento per andare a cercare sotto la cenere.

Contributo di Sara Sabbadin, psicologa e formatrice